India, racconto: - l'Amore che tocca e trasforma -




L'amore che tocca e trasforma (esperienza di volontariato in India)


Quando lo presi tra le mie braccia per la prima volta avvertii subito un sentimento profondo di amore, un amore che sentivo vibrare nelle mie viscere, come se David lo avessi davvero partorito. La mia presenza in India nasceva da un sentimento di amore e compassione, volevo essere partecipe, presente e testimone, in un Paese dove tantissimi sono i bambini di strada, tutti senza un nome, una identità sociale. Sentivo un forte richiamo, un bisogno mio di toccare con mano questi bambini e la loro esistenza.


David, sei mesi di vita, alcuni dei quali passati in orfanotrofio, sieropositivo, con un’importante ernia ombelicale. Grandi occhi neri sguardo intelligente e dolce, mi osservava fermo, a perlustrare la mia anima. Tra le mie braccia si sentiva a casa e riusciva a spalmarsi sul mio corpo come fosse il suo rifugio.


Alla mattina entravo alla nursery, la casa che accoglieva circa 30 neonati e bambini, dai pochi giorni di vita ai due anni, per prestare il mio servizio di operatrice ayurvedica. I piccolini raggruppati in 3 stanze stavano sempre distesi nei loro lettini recintati, aspettando di essere raccolti dalle donne indiane, per le pratiche mattutine di pulizia e nutrimento.


I bambini più grandicelli dormivano al piano superiore in una stanza a loro riservata e al mio arrivo li trovavo spesso svegli e piangenti a chiedere attenzioni e coccole. Già mentre salivo la scala li sentivo che mi chiamavano -mom mom- e poi li vedevo con le braccia protese verso il mio collo. Provavo una pena infinita a non poter soddisfare il loro bisogno di affetto, incolmabile come un baratro senza fondo.


I bambini di cui mi occupavo frequentemente erano i più bisognosi, quelli che soffrivano di qualche grave patologia e David come Andrew erano sieropositivi. Poi c'era Sara una bimba di due anni non vedente e autistica, se ne stava a terra spingendosi a colpi di reni sul pavimento in giro per la sala, impegnata sovente a picchiare la testa a terra si calmava solo mentre la toccavo con l'olio. Ogni bimbo aveva una storia di violenza, abbandono e sofferenza ma mi voglio ora soffermare su ciò che accadde ai due piccolissimi protagonisti di questa storia.


Andrew aveva circa tre mesi quando lo vidi la prima volta e subito mi colpì la sua serenità, non solo non piangeva ma distribuiva a tutti grandi sorrisi sdentati. Lo trovavo nella sua culla sdraiato a pancia in giù o all’aria sempre impegnato in buffi vocalizzi. Tra i giocattoli accatastati nel salone principale avevo trovato una paperetta gialla di plastica rigida con una funicella posteriore che tirandola azionava il battito d’ali al ritmo di un bel motivetto, come un carillon. Appoggiavo la paperetta sul lettino e Andrew sgambettava felice.


Ogni mattina dedicavo mani e attenzione a qualche piccolo, attraverso il contatto morbido, amorevole e oleoso cercavo di nutrire non solo i loro corpi ma anche la loro anima. Sentivo che il mio amore poteva curare quanto, e forse di più, delle conoscenze ayurvediche che applicavo sui loro corpi.


David diventava sempre più bello e forte. Spesso al pomeriggio uscivo con lui in braccio in passeggiata tra i viali costeggiati da giardini fioriti per incontrare tanti altri bambini più grandi ospitati in altre case dello stesso orfanotrofio. Mi piaceva comunicare con le ragazze adolescenti che nel pomeriggio uscivano tra i viali a giocare e mi dava gioia ascoltare le loro storie. Quando rientravamo alla nursery David era addormentato, completamente abbandonato su di me, in totale fiducia. Dolcemente lo appoggiavo sul suo lettino senza che lui si svegliasse, pago del prolungato contatto.


Poi Andrew si ammalò. Tossi e raffreddori erano comuni tra i bambini anche perché le donne azionavano le ventole sui soffitti delle camere a gran velocità per mitigare l’opprimente caldo monsonico estivo. Il raffreddore di Andrew diventò bronchite ma nessuno sembrava farci caso. 

In tutto l’orfanotrofio non era presente un medico, le tre infermiere che si alternavano ai turni nel villaggio che ospitava centinaia di bambini e giovinetti fino ai 14 anni, dovevano occuparsi di tutte le terapie farmacologiche e in caso di estremo bisogno si sarebbe dovuto chiamare un’auto per il trasferimento all’ospedale più vicino.


Avevo subito intuito che il piccolo stava peggiorando, il suo respiro era diventato rumoroso, poco fluido e così, temendo il peggio, di notte andavo a vedere come stava. Avendo avuto un figlio che da piccolino soffriva di asma sapevo che durante la notte i sintomi di una malattia respiratoria possono aggravare. 


Infatti una notte lo trovai molto sofferente, nessuna delle infermiere era raggiungibile quindi di mia iniziativa chiamai un taxi e con l’aiuto di Suma, la -mom- responsabile del coordinamento dell'intero orfanotrofio, lo trasportammo all’ospedale. Le sue condizioni si rivelarono gravi, lo lasciammo nelle mani dei dottori.  Nei giorni seguenti tememmo di perderlo.


Provavo un dolore profondo e non mi rassegnavo a rimanere spettatrice inattiva. Dovevo, volevo, forse potevo fare qualcosa per lui. Erano ormai dieci giorni che Andrew era in terapia intensiva e un’intuizione si era stabilita nella mia mente: sarei andata a trovarlo con la “sua" papera gialla. Sapevo che certi stimoli sensoriali, il suono in particolare modo, possono evocare e risvegliare nella Coscienza delle memorie di esperienze vissute.


Ogni organo sensoriale è un canale di accesso a questa facoltà. Come il sapore del latte può evocare il ricordo della nostra infanzia, della mamma e del tepore del suo abbraccio, così il suono può risvegliare memorie significative del nostro vissuto andando a "toccare" le cellule emozionali. Quante volte l’ascolto di un brano musicale ci riporta a ricordi ormai lontani che tornano improvvisamente vividi, a chi non è capitata simile esperienza? Avrei tentato.


Chiesi a Suma di fissare un appuntamento all’ospedale di Vijavada, dove Andrew era ricoverato. Con l’occasione del viaggio avrei portato con me anche David; sollecitai per lui un test del sangue, sentivo dentro di me che la sua situazione clinica era cambiata, non era solo una speranza ma una certezza profonda anche se per poterlo affermare necessitavo di una verifica.


Ero all’orfanotrofio da più di due mesi e David era davvero uno splendore. Speravo tanto potesse essere adottato da una famiglia indiana, anche se sapevo che era quasi impossibile, dato che era già adottato a distanza da una famiglia benestante italiana la quale sovvenzionava con ingenti somme di denaro l’orfanotrofio. A volte i miracoli accadono, mi dicevo.


In un giorno di pallido sole, dopo che per alcuni il monsone si era abbattuto copiosamente allagando tutti i viali di terra battuta del villaggio, eravamo in auto dirigendoci verso l’ospedale. David era sulle mie ginocchia, sul sedile posteriore del taxi, un po’ infastidito dal viaggio in auto mentre Suma, che mi accompagnava, era seduta sul sedile davanti a fianco dell’autista; un’altra donna era con noi per accudire David mentre saremmo andate al reparto di rianimazione a trovare Andrew.


Passammo prima al centro per il prelievo del sangue dal braccino di David, tra urla e divincolamenti, il medico fece ciò che doveva. Ci avrebbero comunicato l’esito per telefono appena ne fossero stati a conoscenza. Dopo aver affidato David in braccia sicure Suma ed io ci dirigemmo al reparto rianimazione. Ci fecero togliere le scarpe fuori della porta d’ingresso lasciandole incustodite sul corridoio ai lati di un mucchio enorme di scarpe, sandali e ciabatte.


Quando vidi Andrew fu un colpo al cuore. Il piccolissimo corpo di appena 5 mesi, nudo ed emaciato, sdraiato prono nel centro di un letto troppo grande, occhi chiusi, respiro impercettibile, cannule varie infilate sopra e sotto, non capivo più nulla e temetti di svenire. Invece crollai in un pianto silenzioso e ininterrotto. 


Appoggiai la papera gialla a fianco di Andrew, sul letto, tirai la cordicella e un’insieme di note dal carillon si diffusero nella stanza tra lo stupore delle infermiere che si stavano prodigando su altri pazienti inconsci. Suma ed io rimanemmo lì, accanto il letto, per un po’ ad accarezzare con lo sguardo il piccino poi, sotto lo sguardo complice della mom, con mano lieve svolsi la mia pratica energetica sfiorando il corpicino tra le cannule che in parte lo ricoprivano. 


Chiesi poi alle infermiere del reparto se avessi potuto lasciare il giocattolo a fianco del bimbo pregandole di attivare il carillon frequentemente. Dei sorrisi di assenso mi rincuorarono, potevo contarci. Fummo costrette ad uscire, un colpo per me lasciarlo li, solo e nudo. 

Ci pensò David a riscaldare il mio cuore con suo morbido abbraccio e la gioia di rivedermi.


Facemmo il viaggio di ritorno in profondo silenzio. Eravamo quasi arrivati al villaggio che il cellulare suonò. Scambiai uno sguardo d’intesa con Suma, chiamavano dal laboratorio, David non era più positivo HIV. Ora che sto scrivendo e rivivendo questa esperienza, sento ancora gli stessi brividi che mi percorsero il corpo come una scarica elettrica.


Una gioia indescrivibile traboccante di risa e lacrime ci travolse tutti. La vita aveva dato un forte segnale, tutto può trasformarsi. La felicità che sentivo per la bella notizia su David si scontrava col dolore profondo che provavo per le gravi condizioni in cui avevo lasciato Andrew. Vita e morte erano vicine di casa.


Dopo qualche giorno apprendemmo che le condizioni di Andrew erano migliorate ma ancora fragili. Speranza e una piccola fiamma di certezza s’insinuarono in me. 


Due settimane più tardi eravamo nuovamente in ospedale ma questa volta per riportare a casa il piccolo Andrew, ancora debole ma guarito, e la sua paperella gialla le cui note lo avevano accarezzato risvegliandolo alla vita. 


Fotografia: io tra i bimbi nella sala ricreazione


"L'amore non è una questione personale ma Universale" 
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